📌 Disclaimer personale
Dopo il grande riscontro ricevuto con il mio primo articolo sull’infertilità e l’isteroscopia, alcune di voi mi hanno scritto chiedendomi: “Ma da dove è cominciato tutto?”
Ho deciso allora di aprirmi ancora di più e raccontare, capitolo dopo capitolo, il mio percorso in questa lunga battaglia: dagli inizi, alle diagnosi, agli ostacoli incontrati lungo la strada.
Questo è il primo racconto di una serie che spero possa aiutare chi sta attraversando qualcosa di simile a sentirsi meno sola.
Indice
Se mi avessero detto…
Se mi avessero detto, a vent’anni, che un semplice pap test avrebbe cambiato la mia vita per sempre, probabilmente avrei sorriso incredula. A quell’età ti sembra che tutto sia ancora davanti: i sogni, le scelte, i progetti, perfino i problemi di salute appartengono a un futuro lontano.
La fertilità? Non ci pensi. La parola “diagnosi” suona astratta, quasi appartenente a un’altra categoria di persone — mai a te.
E invece è proprio da lì che è iniziato tutto.
Non da un test di gravidanza negativo, né da mesi di tentativi falliti, ma da una visita di routine fatta quasi per caso. Un gesto apparentemente semplice che ha spalancato una porta su un percorso che, allora, non potevo minimamente immaginare.
Quella diagnosi ha segnato il confine invisibile tra la spensieratezza della giovinezza e la consapevolezza profonda del corpo, della sua fragilità e delle battaglie silenziose che molte donne affrontano.
È stato l’inizio di un viaggio che mi avrebbe portata, anni dopo, a confrontarmi con parole come infertilità, trattamenti, attese, speranze e paure. Un viaggio che oggi scelgo di raccontare con sincerità, perché so quanto sia importante rompere il silenzio.
Il mio primo amore e la rottura improvvisa
La mia storia parte da molto lontano, da un’estate che oggi mi sembra appartenere a un’altra vita. Ogni anno, da bambina e poi da adolescente, trascorrevo i mesi estivi al mare e fu li che lo connobi: il mio amore di gioventù.
All’inizio era solo uno sguardo rubato, una timida attesa del suo passaggio, una risata che cercavo di incrociare. Lui era uno di quei ragazzi che sembrano brillare più degli altri: carismatico, sorridente, circondato da amici e da un’aura leggera di libertà.
Poi, dal 2007 al febbraio 2009 siamo stati insieme, tra momenti bellissimi e un periodo difficile a distanza: io in Italia a finire gli studi, lui in Brasile a lavorare.
A fine 2008 mi organizzai con entusiasmo per ritornare a vivere in Brasile, passando il Capodanno con lui. Ma già in aeroporto, quando venne a prendermi, percepii che qualcosa era cambiato. Lui era diverso, più distante, interessato più alle serate con gli amici e alle sigarette che a noi due. Io ero ancora innamorata persa, lui probabilmente meno.
Le settimane successive furono un’altalena di emozioni: io cercavo di recuperare quel legame, lui sembrava scivolarmi via tra le dita. Le discussioni diventavano sempre più frequenti, più accese, più dolorose. Finché arrivò il momento che non dimenticherò mai: Carnevale 2009, la sera del 24 febbraio. Mi guardò negli occhi e mi disse, senza giri di parole:
“Non ti amo più.”
Una frase secca, come una porta che si chiude senza preavviso.
Mi crollò tutto addosso. Avevo lasciato la mia quotidianità in Italia — casa, macchina, amici, piccoli equilibri costruiti nel tempo — per tornare in Brasile e ricominciare una nuova fase della nostra storia. E invece mi ritrovai sola, in un luogo che improvvisamente non sentivo più mio, con il cuore a pezzi e nessun piano per il futuro.
I mesi successivi furono bui. Scivolai in una depressione profonda: non mangiavo, non uscivo, mi sentivo sospesa in un limbo in cui tutto aveva perso colore. Quando sei così giovane, il primo grande amore ti sembra eterno. E quando finisce, hai la sensazione che finisca anche una parte di te.
A Pasqua del 2009 presi la decisione più importante di quel periodo: tornare in Italia. A Gallarate, dove viveva mio padre e dove avevo ancora qualche conoscenza, cominciai lentamente a rimettere insieme i pezzi. Non fu facile, ma fu il primo passo verso una nuova fase della mia vita — quella che, senza saperlo, mi avrebbe condotta verso un percorso molto più complesso e profondo di quanto potessi immaginare.
Una visita di routine che cambia tutto
Dopo la fine della storia con il mio amore di gioventù e il mio ritorno in Italia, la mia vita era lentamente tornata a scorrere in modo normale. Avevo ripreso i miei ritmi, cercavo un equilibrio nuovo e, come spesso accade dopo un periodo difficile, avevo voglia di sentirmi di nuovo “a posto” con me stessa. Fu in quel momento che decisi di fare una visita ginecologica di controllo.
Prendevo la pillola anticoncezionale Diane da diversi anni, e avevo sentito dire che ogni tanto era consigliabile fare un periodo di sospensione per permettere al corpo di “respirare”. Inoltre, in quel periodo, mia zia stava affrontando una serie di accertamenti per l’endometriosi. Lei, con quella sua premura tipica, mi disse:
“Perché non fai anche tu un controllo completo? Non si sa mai, meglio prevenire.”
Non avevo sintomi particolari. Nessun campanello d’allarme. Nessuna paura. Quella decisione nacque quasi da un riflesso di responsabilità adulta: “Facciamolo, così tolgo il pensiero.”
Mi prenotai per un Pap test, convinta che sarebbe stata una semplice formalità, come le mille cose noiose che si fanno perché “bisogna farle”. Non potevo immaginare che quella scelta apparentemente banale sarebbe diventata una delle più importanti della mia vita.
Poche settimane dopo, arrivò la telefonata della ginecologa. Ricordo perfettamente la sua voce, più seria del solito. Mi disse che erano emerse delle alterazioni cellulari importanti e che dovevo presentarmi per ulteriori accertamenti. Il cuore mi iniziò a battere più forte, ma ancora non avevo piena consapevolezza della portata di quelle parole.
Dopo un ciclo di esami più approfonditi, arrivò la diagnosi che nessuno vorrebbe mai ricevere:
infezione da HPV con lesione CIN3.
Rimasi in silenzio. Quelle sigle — HPV, CIN3 — mi rimbalzavano nella testa senza un significato chiaro. Non avevo ancora la maturità, né l’esperienza, per comprendere davvero cosa implicassero.

HPV e CIN3: cosa significano davvero
L’HPV (Papilloma Virus Umano) è uno dei virus più comuni al mondo. Si trasmette soprattutto per via sessuale e nella maggior parte dei casi il nostro sistema immunitario riesce a eliminarlo da solo. Ma non sempre. Alcuni ceppi ad alto rischio possono causare lesioni precancerose al collo dell’utero.
Queste lesioni vengono classificate in tre gradi:
- CIN1: lieve, spesso regredisce spontaneamente.
- CIN2: moderata, richiede un monitoraggio attento.
- CIN3: grave, lo stadio più alto prima che le cellule possano trasformarsi in carcinoma invasivo.
Io ero proprio a quel livello: CIN3. Una diagnosi che, a vent’anni, ti crolla addosso come un macigno. La parte più dura, però, fu affrontare il come ci ero arrivata. In quegli anni ero stata con un solo ragazzo, per questo, quando sentii parlare di infezione da HPV, la mia mente iniziò a correre.
Lui mi giurò, con fermezza, di non avermi mai tradita e di non avere alcuna malattia. Ma dentro di me il dubbio rimase. Non tanto per accusarlo, ma perché improvvisamente la fiducia ingenua e assoluta che avevo nel nostro legame si incrinò.
Era come se, oltre alla diagnosi medica, mi fosse stata consegnata anche una ferita invisibile, una crepa nella storia che avevo sempre idealizzato. E quella crepa, col tempo, non si è mai davvero richiusa.
L’attesa per l’intervento
Dopo la diagnosi, la mia ginecologa mi spiegò con voce calma ma ferma che sarei stata inserita nella lista d’attesa dell’ospedale di Busto Arsizio per un intervento chirurgico chiamato conizzazione (LEEP). In termini semplici, si trattava di rimuovere, tramite bisturi elettrico o laser, la porzione di collo dell’utero dove si trovavano le cellule malate.
All’epoca avevo vent’anni. Le sue parole scorrevano su di me come un linguaggio estraneo: tecnico, distante, quasi irreale. Non avevo idea di cosa significasse davvero per il mio corpo e per il mio futuro. Era il 2010: poche informazioni online, niente testimonianze dirette, nessuna community a cui chiedere conforto. E io, sola con quella diagnosi, cercavo di aggrapparmi alla fiducia cieca nei medici.
Fu in quel periodo sospeso che nella mia vita entrò Andrea. Ci conoscemmo a marzo 2010, in una serata in discoteca. Non cercavo niente, ma la sua dolcezza e pazienza mi colpirono. Quando decisi di raccontargli della mia situazione, temevo il giudizio o la fuga; invece, lui rimase. Mi guardò negli occhi e disse con semplicità:
“Non preoccuparti. Ci sono anch’io.”
Quelle parole furono come un’ancora. In mezzo all’incertezza, avere qualcuno accanto che sceglieva di restare mi diede una forza che non sapevo di avere.

Poco prima di essere messa in lista per l’intervento, ebbi una conversazione che non ho mai dimenticato. Durante una visita pre-operatoria, la ginecologa mi guardò dritta negli occhi e mi chiese, con una serietà inaspettata:
“Barbara, tu desideri avere figli?”
Rimasi spiazzata. A vent’anni i figli erano un’idea lontana, sfocata. Pensavo ai viaggi, alle serate, ai progetti di lavoro — non certo alla maternità. Balbettai qualcosa del tipo: “Sì… magari un giorno, quando avrò trent’anni.”
Lei continuò, senza abbassare lo sguardo:
“Sei in una relazione stabile?”
Quella domanda mi fece quasi sorridere: conoscevo Andrea da appena un mese, e l’idea di parlare di figli in quel momento mi sembrava fuori luogo, quasi ridicola. Le dissi che era troppo presto per pensarci, che ci avrei riflettuto più avanti.
Lei annuì, ma la sua espressione rimase seria.
“Va bene… ma è importante che tu sappia che questo tipo di intervento può avere conseguenze future sulla fertilità. Se desideri avere figli, dovresti valutare seriamente l’idea di una gravidanza prima di procedere alla conizzazione.”
Quelle parole mi colpirono come un fulmine a ciel sereno. Non era un semplice avvertimento medico: era un consiglio concreto, diretto. A vent’anni, però, quella prospettiva mi sembrava quasi surreale.
Avevo appena iniziato a conoscere Andrea, la mia vita era in piena costruzione, e l’idea di una gravidanza programmata “subito” mi sembrava lontanissima dalla mia realtà. Le dissi che era troppo presto, che ci avrei pensato più avanti, magari verso i trent’anni.
“Ricorda queste parole, Barbara,” disse piano. “Meglio pensarci adesso che dover affrontare problemi più avanti.”
Non lo sapevo ancora, ma quella frase sarebbe diventata una specie di eco silenziosa nella mia mente. A distanza di anni, ogni volta che ripenso a quel colloquio, sento ancora la sua voce.
È stato il primo momento in cui la parola “fertilità” ha assunto un significato personale e concreto, e ancora oggi porto dentro di me quella conversazione come un nodo non sciolto.
Le settimane successive furono una parentesi sospesa: da un lato cercavo di non pensarci troppo, dall’altro, quelle parole tornavano a bussare alla mia coscienza, lasciandomi un’inquietudine sottile. Cercavo risposte ma trovavo solo frammenti confusi; così, per non farmi travolgere, decisi di affidarmi totalmente ai medici.
“Loro sanno cosa fare. Io devo solo aspettare.”
Il giorno dell’intervento: un trauma indelebile
Il giorno dell’intervento arrivò in una mattina fredda e silenziosa di aprile 2010. Mi svegliai presto, con lo stomaco chiuso e la testa piena di pensieri che non riuscivo a mettere in fila. Sapevo che quello sarebbe stato un giorno importante, ma non avevo idea di quanto mi avrebbe segnata.
Mi accompagnò mia zia Angela. Arrivate all’ospedale, tutto sembrava freddo, impersonale. L’odore pungente di disinfettante, i corridoi bianchi, il rumore metallico dei carrelli: ogni dettaglio si è inciso nella mia memoria.
Mi fecero accomodare su una poltrona ginecologica nella sala ambulatoriale. Era tutto molto “pratico”, quasi sbrigativo: nessuna musica rilassante, nessuna parola rassicurante, solo istruzioni rapide e movimenti meccanici.
L’intervento si sarebbe svolto in anestesia locale. L’anestesista si avvicinò con una siringa dalla punta lunga, spiegandomi che avrebbe iniettato il farmaco direttamente nella cervice.
Chiusi gli occhi, respirai profondamente e strinsi i denti.
L’iniezione non fu piacevole, ma pensai: “Ok, è fatta. Ora passerà.”
Purtroppo non andò così.
Dopo pochi istanti iniziarono le manovre preparatorie e mi accorsi che sentivo tutto. All’inizio era un fastidio crescente, poi divenne un dolore acuto, tagliente, che mi attraversava il bacino come una lama. Provai a dirlo, con la voce incrinata:
“Sento dolore… non ha fatto effetto.”
Il medico non mi prese sul serio. Mi disse di stare calma, che era solo agitazione. Ma io lo sapevo: non era paura. Era dolore vero. Quando iniziò a tagliare, il dolore esplose in tutta la sua violenza. Urlai. Non un gemito trattenuto, ma un urlo pieno, istintivo, che mi raccontarono si sentì anche nel corridoio esterno.
Mi sentii completamente impotente. Immobilizzata, esposta, inascoltata. Cercavo lo sguardo di qualcuno, un gesto di comprensione, ma tutto quello che vedevo erano sguardi frettolosi e guanti che si muovevano attorno a me.
Solo a quel punto il dottore si fermò e decise di rifare l’anestesia. La seconda iniezione funzionò, finalmente. Il dolore si spense gradualmente, lasciando spazio a un torpore fisico… ma dentro di me era successo qualcosa.
Quella mancanza d’ascolto, quella sensazione di essere trattata come un corpo “da aggiustare” e non come una persona che sta vivendo qualcosa di delicatissimo, lasciò un segno profondo.
L’intervento proseguì e si concluse senza ulteriori complicazioni. Il tessuto rimosso venne inviato al centro tumori di Milano per l’analisi. Ma io, quella mattina, uscii da quella stanza diversa.
Non solo con una ferita fisica, ma con una ferita invisibile che avrei portato per anni.
Da quel giorno, ogni volta che entro in un ambulatorio ginecologico, il mio corpo lo ricorda: le gambe tremano, le mani sudano, il cuore accelera. È come se quella paura fosse rimasta lì, nascosta da qualche parte, pronta a riaffiorare. Quel giorno non mi hanno tolto solo un frammento di tessuto malato. Mi hanno tolto la fiducia.

Il verdetto finale
Dopo una ventina di giorni di attesa, arrivò la telefonata che avevo temuto e sperato allo stesso tempo. Quando sentii la voce della ginecologa, trattenni il respiro. Le sue parole furono come una lama affilata che, invece di ferire, taglia la corda dell’ansia:
“Non ci sono cellule maligne.”
Mi spiegò che si trattava di un tumore benigno del collo dell’utero, e che la conizzazione era riuscita a rimuovere tutta la porzione di tessuto malato. Non c’erano metastasi, né segni di diffusione. Era finita lì.
Per qualche secondo rimasi in silenzio, incapace di reagire. Poi sentii un’ondata di sollievo attraversarmi da capo a piedi. Era come se qualcuno avesse finalmente aperto una finestra in una stanza chiusa da settimane: potevo respirare.
Le spalle si allentarono, gli occhi si riempirono di lacrime. Avevo avuto paura — una paura vera, profonda — e ora potevo finalmente lasciarla uscire.
Eppure, mentre chiudevo la chiamata, dentro di me si muoveva qualcosa di più sottile. Una voce quieta, quasi impercettibile, che diceva: “Non è finita davvero.”
Nonostante il verdetto favorevole, avevo la netta sensazione che quella fosse solo la prima tappa di un percorso molto più lungo e complesso. Come se la mia storia con la salute riproduttiva fosse appena iniziata, in silenzio, senza che io me ne rendessi conto del tutto.
Non c’erano più cellule maligne. Ma c’erano domande nuove, paure non ancora elaborate, e una nuova consapevolezza: il mio corpo non era invincibile. Da quel momento in poi, nulla sarebbe stato più vissuto con la leggerezza di prima.
Una riflessione a cuore aperto
A vent’anni non pensi ai figli, alla fertilità, alla possibilità che un intervento possa compromettere il tuo futuro. Quando la mia ginecologa mi chiese se desideravo avere bambini, risposi con leggerezza: “Ci penserò dopo i 30 anni”.
Non potevo immaginare che quella leggerezza, un giorno, avrebbe lasciato spazio a ben altri pensieri.
Questa è stata la mia prima vera battaglia. Da lì in avanti, la strada si sarebbe fatta ancora più complessa. Ma questa, ve la racconterò nel prossimo capitolo.
📌 Nota importante: quello che condivido è la mia esperienza personale. Ogni caso è unico: se hai ricevuto una diagnosi simile, affidati sempre al parere di un medico specialista.
