📌 Disclaimer personale
Questo articolo fa parte della mia serie dedicata al racconto del mio percorso nella battaglia contro l’infertilità. Dopo aver condiviso la diagnosi di HPV e CIN3 e il trauma dell’intervento di isteroscopia, continuo il mio racconto riprendendo da dove ci eravamo lasciati: la mia vita che, apparentemente, tornava alla normalità.
Indice
Tornare a vivere
Dopo l’operazione di conizzazione (LEEP) ho fatto la cosa più naturale che potessi fare: ho provato a rimettere insieme la mia vita. Con Andrea il tempo scorreva in avanti, e con lui cresceva anche l’idea di qualcosa di nostro, stabile. Dopo cinque anni insieme ci siamo guardati e ci siamo detti: “È il momento di trovare casa!”
A metà del 2011 abbiamo iniziato il classico giro di visite e telefonate, agenzie, appuntamenti serali dopo il lavoro e sabati passati a guardare immobili. In alcuni appartamenti c’era troppa umidità, in altri poca luce, in altri ancora il prezzo non aveva senso.
Finché è arrivato quel trilocale a sud di Milano, a Pieve Emanuele: non perfetto, ma giusto per noi. Corridoio semplice, soggiorno luminoso, una stanza che già nella nostra testa diventava “la cameretta”.
Sono seguite le firme in banca e dal notaio, la paura di sbagliare pagina, l’emozione di stringere le chiavi. Il trasloco è stato fatto di scatoloni, una cena in salotto seduti per terra con piatti di plastica e la sensazione dolcissima di essere a casa anche senza mobili.
Abbiamo arredato piano: prima l’essenziale, poi un quadro regalato, una pianta che resisteva poco, una tenda messa storta che mi faceva ridere ogni mattina. Era ordinario, ma era nostro.
In quella casa nuova abbiamo iniziato a immaginare davvero il futuro: cene lente, la domenica mattina senza sveglia, piccoli rituali che fanno famiglia. E, sullo sfondo, l’idea di un figlio: non un progetto scritto in agenda, ma un desiderio che prendeva forma, stanza dopo stanza.



Il lavoro, Valentina e la scintilla della maternità
Nel frattempo lavoravo come assistente alla poltrona a Trezzano sul Naviglio, in uno studio dentistico… diciamo “particolare”. Era un ambiente caotico, con un titolare dalle idee tutte sue e un ritmo spesso assurdo. L’unica vera salvezza di quelle giornate era Valentina, l’altra assistente.
Col tempo è diventata una delle mie migliori amiche. Condividevamo tutto: i pranzi al parco, le chiacchiere, le confessioni, le risate sulle manie surreali del nostro capo. In quel piccolo angolo di normalità quotidiana è nata una complicità forte, autentica, fatta di sguardi d’intesa nei momenti di follia lavorativa e di abbracci nei giorni difficili.
Nel 2014, Valentina rimase incinta. Ricordo quel momento come fosse ieri. Era un giorno qualsiasi: io mi stavo cambiando per correre dal veterinario — il mio cagnolino doveva subire un’operazione — quando lei entra in spogliatoio, mi guarda e dice:
“Babba… ti devo dire una cosa… sono incinta!”
E io, completamente presa dal mio programma mentale, risposi al volo:
“Ah sì? Grande! Vado eh, a dopo!”
Sono uscita dallo studio di corsa, ho acceso il navigatore verso Porta Ticinese e, mentre guidavo, la notizia ha iniziato a sedimentare. Mi sono venute le lacrime agli occhi. Ho preso il telefono, l’ho chiamata e le ho urlato nell’auricolare:
“Vale?! Ma davvero? Che meraviglia! AUGURIIII!”
Quando sono tornata, mi sono fatta raccontare tutto nei minimi dettagli. Ancora oggi ridiamo di quella mia reazione assurda, a metà tra lo shock e la gioia.
Forse è stato proprio quel momento ad accendere la scintilla della maternità dentro di me.
Ero con Andrea già da quattro anni, avevamo preso casa insieme e sapevo che lui era pronto. Io, forse, non lo avevo ancora ammesso fino in fondo, ma quella notizia ha mosso qualcosa. Così, abbiamo deciso di iniziare a provare ad avere un bambino.
Ho smesso la pillola e ho lasciato che fosse “l’universo a decidere se e quando”. Ma quasi subito ho notato che i miei cicli erano molto irregolari, e capire i periodi fertili era un’impresa. Dopo anni di ciclo “chimico” indotto dalla pillola, tornare a un ritmo naturale non era affatto semplice.

La visita al Buzzi e la scoperta sulla conizzazione
Per i controlli periodici mi affidavo al primario di ginecologia dell’Ospedale Buzzi, che mi seguiva da tempo per la mia situazione legata all’HPV. Alla prima visita dopo l’intervento, rimase colpito osservando l’ecografia.
“Chi ti ha operato? Un macellaio?” mi chiese, quasi senza mezzi termini.
Solo allora realizzai davvero quanto fosse stata radicale la conizzazione. Mi spiegò che, probabilmente per paura di una recidiva, i colleghi di Busto Arsizio avevano asportato più tessuto del necessario, lasciandomi praticamente senza collo dell’utero.
Mi disse che la mia era una situazione particolare: secondo lui non avrei avuto difficoltà a concepire, ma nel momento in cui fossi rimasta incinta sarebbe stato necessario fare un cerchiaggio per sostenere la gravidanza.
📌 Il cerchiaggio è un intervento chirurgico che consiste nell’applicare un punto di sutura intorno alla cervice per rinforzarla e prevenire rischi di parto prematuro o aborto tardivo in caso di cervice corta o compromessa.
Gli raccontai che stavamo provando da qualche mese. Lui sorrise e disse che avevo 27 anni, ero “in piena età fertile” e che dovevamo semplicemente continuare per almeno un anno prima di preoccuparci.
Dentro di me, però, qualcosa non tornava. Avevo una sensazione profonda, viscerale, che qualcosa non funzionasse come avrebbe dovuto. Ma, ancora una volta, decisi di fidarmi dei medici.
L’anno dei tentativi e il cambio lavoro
Nel 2016 ho cambiato lavoro e sono approdata in centro a Milano, zona Duomo, in uno studio molto diverso. Ed è proprio lì che ho conosciuto Martina.
La prima impressione? Non idilliaca. Mi sembrava “tutta lei”, un po’ sopra le righe, e il fatto che fosse entrata grazie a una conoscenza di famiglia non aiutava. Inoltre, portava spesso il fidanzato in studio e io pensavo:
“Ma perché deve portare la sua gente qui?”
Poi la vita ha fatto il suo lavoro: turni condivisi, urgenze gestite insieme, caffè rubati tra un paziente e l’altro, risate improvvise. La distanza si è sciolta. Quella ragazza che all’inizio mi infastidiva è diventata la sorella che non ho mai avuto. Oggi posso dirlo: mi ha salvata più volte, anche solo stando lì, a ricordarmi che non ero sola.

I mesi iniziarono a scorrere, uno dopo l’altro, con la ritmica cadenza dei test negativi. All’inizio c’era curiosità, leggerezza, la tipica fiducia di chi pensa che “tanto succederà presto”. Ma col passare del tempo, quella leggerezza ha lasciato spazio a un’ombra sottile, che ogni mese diventava un po’ più lunga.
Ogni ciclo che arrivava era come un piccolo colpo al cuore. All’inizio cercavo di razionalizzare — “è solo questione di tempo, siamo giovani, capita a tante coppie”. Poi, piano piano, ho iniziato a contare i giorni, osservare il mio corpo come se fosse un enigma da decifrare, a leggere segnali che forse non c’erano o a ignorarne altri che erano fin troppo chiari.
Intorno a noi, le vite degli altri sembravano andare avanti senza intoppi: amiche che annunciavano gravidanze, pancioni che crescevano, baby shower, fiocchi nascita alle finestre. Ogni annuncio era un misto di gioia e pugnalata silenziosa.
Andrea continuava a ripetere che non c’era fretta, che sarebbe successo. Era sereno, positivo, come sempre. Io, invece, iniziavo a sentirmi guasta, come se il mio corpo stesse tradendo il sogno che lui aveva sempre avuto: diventare padre. Ogni volta che lo guardavo negli occhi, dietro il sorriso vedevo riflessa la mia paura: e se non fossi mai stata in grado di dargli quello che desiderava?
Invece di condividere questi pensieri, mi sono chiusa. Mi sono difesa con il silenzio, con il distacco, con quella strana forma di autoprotezione che ti fa credere di soffrire di meno se ti allontani per prima.
Invece di affrontare la situazione insieme, ho iniziato ad allontanarmi da lui, giorno dopo giorno, quasi senza rendermene conto. Fino a quando, dopo sette anni di relazione, ho preso la decisione più difficile: me ne sono andata.
Non fu una rottura impulsiva. Fu un addio lento, consapevole e profondamente doloroso. Sentivo di dover ricominciare da me stessa, rimettere in ordine i pezzi frantumati, respirare da sola. Ma dentro di me c’era anche una verità più cruda: avevo paura di essere io quella “sbagliata”. E quella paura, non detta, mi aveva spinta a fuggire.
Continuai i controlli ginecologici, raccontai ai medici i miei dubbi e le mie angosce. Ma ancora una volta, non fui davvero ascoltata. Mi dissero che ero giovane, che era tutto nella mia testa, che “ci pensavo troppo”. Come se la mia intuizione profonda fosse solo ansia femminile da zittire con una pacca sulla spalla.
E io, purtroppo, ci credetti. O meglio, smisi di combattere apertamente. Ma dentro, la ferita restò.
Un nuovo cambiamento
Era settembre 2017 e, in quel periodo, anche Martina era single. Due strade, due donne, due cuori sgualciti che si ritrovano nello stesso momento della vita. È stato naturale avvicinarci, condividere il dolore, le giornate, e poi decidere di prendere un appartamento insieme. Due coinquiline, ma soprattutto due alleate inconsapevoli.
Quello fu, forse, l’unico periodo davvero spensierato della mia vita adulta.
Fatto di risate improvvisate in cucina, serate passate a guardare film stravaccate sui nostri lettoni, gite improvvisate, chiacchiere infinite la notte, qualche “trifasino” andato a male….
In quella casa ho imparato di nuovo a respirare. Ho messo le paure in un cassetto e ho deciso, almeno per un po’, di non pensarci. Di “rimandare” la questione fertilità a un futuro indefinito.
E tutto filò liscio… fino al 2019. Ma questa, è un’altra storia. ✨
📌 Nota importante: quello che condivido è la mia esperienza personale. Ogni percorso è diverso e unico. Se hai dubbi sulla tua salute riproduttiva, parla sempre con uno specialista di fiducia.