Tra speranza e dolore: il viaggio invisibile dell’infertilità

Ci sono viaggi che si scelgono e viaggi che ti scelgono. Questo blog è sempre stato lo spazio in cui racconto avventure in giro per il mondo: città lontane, mete da sogno, orizzonti che ti tolgono il fiato. Ma oggi voglio parlare di un altro tipo di viaggio, uno che non trovi su nessuna mappa e che non ha biglietti di ritorno.

È il viaggio più difficile e complicato che abbia mai intrapreso: quello attraverso l’infertilità.
Un percorso fatto di attese, di speranze che si accendono e si spengono, di lacrime silenziose e di domande che non trovano risposta.

Ho deciso di condividere i miei pensieri perché, proprio come quando si esplora un luogo sconosciuto, non si dovrebbe mai affrontare la tempesta da soli. Forse le mie parole potranno aiutare qualcuno che sta vivendo la stessa lotta a sentirsi meno solo. E forse, un giorno, guardando indietro, riuscirò a vedere questo cammino non solo come dolore, ma come una parte importante della mia storia.

Un viaggio senza mappa

Ci sono ferite che non si vedono. Non hanno croste, non lasciano cicatrici visibili, ma si allargano ogni volta che ci provi di nuovo. L’infertilità è una di quelle ferite: è fredda, sottilissima, e ti scava dentro mentre il mondo intorno continua a respirare normale.

Entro in ambulatorio con la borsa piena di tante piccole cose — un quadernino con annotazioni mediche, un sassino rosa che tengo in tasca come portafortuna, il cellulare con l’ultimo messaggio di incoraggiamento di un’amica (Grazie, Marti!)— e soprattutto con una speranza che profuma di futuro.

È una speranza che mi accompagna da anni, che si è fatta pratica di mattoni quotidiani: farmaci, visite, liti con la burocrazia, attese infinite. Ogni mattina mi sveglio e la porto con me, come un piccolo fardello luminoso che raramente diventa davvero leggero.

Per ben tre volte ho sentito quella voce dall’altra stanza:

“Signora Barbara, stiamo trasferendo un embrione.”

Ogni volta il mio corpo ha risposto con un’onda che parte dal petto e mi arriva fino alla bocca dello stomaco. È una sensazione che non si può descrivere se non l’hai provata: un dolce smarrimento, come quando ti dicono che qualcuno che ami è appena nato e tu non l’hai ancora visto. Lacrime calde, improvvise, che scendono senza rumore, perché in quei secondi sei tutta presa a immaginare.

infertilità

Ti immagini le dita piccole, una voce, il profumo di latte, le mani sporche di farina mentre cucini qualcosa per lui/lei. Ti immagini la casa che si riempie di pianti e risate e non pensi più ai conti, alle mail, alle sveglie.

Poi passano due settimane. Vivi in un limbo, come se stessi camminando su una nuvola. Ti muovi leggera, parli piano, eviti zuccheri e carboidrati perchè così ha detto la dottoressa, ricordi tutte le piccole regole come preghiere laiche.

Ti autocinvinci che se desideri tanto qualcosa, il mondo prima o poi lo capisce e lo lascia entrare. Ma, ti svegli una mattina e il corpo ti tradisce: arriva il ciclo, rosso, deciso, implacabile. Porta via con sé non solo il sangue, ma quel piccolo punto di luce che avevi custodito.

Allora esplodi. Non è solo tristezza: è una rabbia ruvida che ti sale alla gola e che tende a fare a pugni con la speranza. Ti spalanchi il petto e chiedi al mondo perché.

Perché a me? Cosa c’è che non funziona?

Ti senti tradita dal tuo corpo, da quella casa che rifiuta di aprire la porta. Ti metti a fare i conti con te stessa, con le colpe che non hai, con le responsabilità che non ti appartengono.

Le risposte non arrivano. Gli specialisti ti dicono “stiamo indagando”, “non è tutto chiaro”, “facciamo altri esami”. E la tua vita diventa una sequenza di appuntamenti medici, ognuno con la sua sigla, ognuno con la sua porta chiusa.

Il giorno dell’esame: l’isteroscopia ti aspetta

L’appuntamento è alle 8:30, ma arrivo molto prima. L’ansia non mi lascia dormire, così mi presento lì con largo anticipo, come se questo potesse darmi un po’ di controllo su una situazione che in realtà mi scivola dalle mani.

All’accettazione mi consegnano i documenti da firmare e poi salgo. Un’infermiera mi accoglie con tono gentile ma distaccato: “Buongiorno signora, deve svestirsi. Tolga tutto, rimanga solo con il camice, mutande e calze di cotone.”

Mi cambio. E in quell’atto semplice mi sento nuda, indifesa, vulnerabile.
È come se togliere i vestiti significasse togliere anche una parte di me, lasciando solo la paura in bella vista.

Attorno a me, altre donne. Altri sguardi bassi, occhi lucidi, visi che rispecchiano la mia stessa inquietudine. Ognuna ha la sua storia, il suo dolore, il suo sogno infranto.

Mi chiamano per i controlli: pressione, saturazione, dati anagrafici. Poi l’ago nel braccio. Ho le vene sottili, ogni volta è una tortura trovare il punto giusto. E mentre l’infermiera cerca, io trattengo il respiro e stringo i denti. Quando finalmente riescono, prego che non si muova, perché altrimenti sarà un’altra puntura, un altro dolore inutile.

Poi mi lasciano in una saletta d’attesa. Ci sono solo sedie e silenzio.
Niente orologi, niente telefoni, niente TV. Solo noi donne, ognuna con i suoi pensieri, a fissare un muro spoglio che sembra osservare impassibile la nostra fragilità.

Aspettando, la mente corre: rivivo le altre due biopsie, la salpingografia fatta senza sedazione, tutte le visite in quell’ospedale. È come se tutto tornasse a galla insieme alla paura.

Mi chiedo:
Perché?
Perché per alcune di noi il concepimento deve essere una battaglia così dura?
Perché bisogna sopportare esami dolorosi solo per avere una possibilità di diventare madre?

Sono domande che rimbalzano nella testa senza risposta.

Il momento peggiore

Una alla volta vedo le altre donne entrare ed uscire dall’ambulatorio. Tornano con volti stravolti, con occhi che cercano di dire “ce l’ho fatta” ma che tradiscono il dolore appena vissuto.

Poi tocca a me.
L’infermiera mi chiede di togliere le mutande e metterle in un sacchetto. È l’ennesimo gesto che toglie dignità, anche se capisco che è necessario. Mi chiedono di confermare i dati, come se qualcuno potesse mai presentarsi lì al posto mio.

Mi sdraio sulla sedia ginecologica, quella che io chiamo la “posizione da tacchino al forno”: gambe aperte, mani strette, cuore che batte all’impazzata.

Mettono il divaricatore, senza troppa delicatezza. Sento la soluzione fisiologica fredda scendere sulle gambe. Poi l’isteroscopio entra lentamente, deve superare la cervice e arrivare all’interno dell’utero. Lì, attraverso una microcamera, controllano ogni millimetro di tessuto.

Quando trovano qualcosa da prelevare, usano una minuscola pinzetta. Il dolore è acuto, improvviso, quasi insopportabile. Le lacrime iniziano a scendere senza che io possa fermarle.

Prego solo che finisca presto.
Dieci, forse quindici minuti.
Pochi, sulla carta.
Un’eternità, per me.

infertilità

Dopo l’esame

Quando tutto finisce, mi restituiscono le mutande e mi danno un salvaslip. Mi avvisano che potrei avere crampi, “come da ciclo”. Parlano di dolore come se fosse qualcosa di semplice, di scontato.

Mi fissano un appuntamento tra venti giorni per il risultato.
Venti giorni di attesa, di pensieri, di paure.

Esco dall’ambulatorio barcollando.
Il mondo fuori scorre come se nulla fosse, mentre dentro di me è rimasto un silenzio assordante.

La sensazione dopo: vuoto e resistenza

Fuori dall’ospedale il mondo è lo stesso di sempre: il sole, le macchine, i bambini che corrono. Ma dentro di te è rimasto un altro luogo: un buco che aspetta di essere riempito. Cammini lenta, come se ogni passo fosse una trattativa con il destino. Pensi a come dire agli amici, a come fare finta che tutto vada bene, a come tenere dentro la rabbia che ti solleverebbe tutte le volte.

Eppure, nonostante tutto, c’è una scintilla che resta. È fragile, spesso spenta, ma quando meno te lo aspetti si riaccende: quando una infermiera ti sorride con comprensione, quando qualcuno condivide una storia, quando un medico ti dice che non tutto è perduto e che la ricerca avanza.

Quella scintilla è speranza, e anche se a volte la vorresti buttare via come un vestito logoro, la tieni perché è l’unico tesoro che ti consente di continuare.

Non voglio fare altre biopsie — penso con tutta me stessa — ma so anche che la strada per alcune di noi è fatta di passi che non avremmo mai scelto. E così continuo, con il cuore a pezzi e la testa piena di progetti, cercando di trasformare il dolore in energia, la rabbia in decisione, la tristezza in cura.

Perché se un domani riuscirò a tenere tra le braccia il mio bambino/a, saprò che ogni lacrima versata, ogni attimo di paura e ogni esame doloroso avranno raccontato la storia di un amore più grande di qualsiasi dolore.

Fino ad allora, resisto. E resistere è, a volte, l’unico modo che ci è dato per restare madri di qualcosa che ancora non esiste.

Babi
Babi
Trent'anni fa, in un piccolo paesino del Brasile nascevo io. Una sorpresa inaspettata, ma che ha riempito la casa di solarità e energia. Vissi lì fino ai miei 17 anni, quando finito il liceo decisi di venire alla avventura in un paese totalmente sconosciuto. Ed ora mi trovo qui, a Milano dove lavoro e studio Marketing Digitale. Mi definisco uno spirito libero, una donna determinata e ambiziosa ma con i piedi per terra. Spesso sento dire che il mio sorriso insieme al mio sguardo trasbordano di allegria...pertanto cerco di mantenere la positività e il buon umore sempre che possibile. La mia più grande passione è viaggiare. Amo incontrare nuove culture, nuovi volti e nuovi posti bellissimi in questo vasto pianeta. Per cui ho creato il blog, per dividere con voi qualche mia avventura, illustrando come ho vissuto ogni città o paese dove sono passata, con piccoli suggerimenti che dal mio piccolo posso darvi per far sì che la vostra vacanza sia speciale come le mie :) Enjoy!

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